Rodrigo

Anno 1630, per me l’ultimo e il primo. Per il resto del mondo solo un punto imprecisato nel bel mezzo di quel delirio di sangue e merda che è stata la Guerra dei Trent'anni. Ora possiamo permetterci di chiamarla così, con la freddezza dei secoli che dipingono in accademico seppia quella che non fu altro che una carneficina durata un’intera generazione.
Prima venne la scusa della guerra di religione, un pretesto che non passa mai di moda e che, ve lo leggo negli occhi, vi suona familiare in maniera macabra. Già, l’umanità non impara mai niente, non importa quanto a lungo i maestri tentino di spiegare il passato. Ma, appunto, si trattava di una scusa e nulla più. Dietro le croci e gli scapolari degli inquisitori si nascondevano (nemmeno troppo bene, col senno di poi) le brame di potere delle grandi nazioni, la Francia e la Germania che non hanno mai dimenticato.
I potenti si odiano e i poveracci ne fanno le spese, com’è sempre stato e come sempre sarà. Fidatevi, certe cose non cambiano mai. E infatti in quegli anni il nord dell’Italia – che ancora Italia non era se non nella forma geografica – era un comodo accessorio che, all'occorrenza, poteva fungere da campo di battaglia, granaio, bordello o latrina degli eserciti. Il tutto, com’è prevedibile, si traduceva nella galoppata dei Quattro Cavalieri di chiara fama: Guerra, Morte, Carestia e Pestilenza.
Poco da dire sui primi tre: la Storia li ricorda con una certa precisione e onestà.
Ma sul quarto forse le cose non sono poi così chiare.
La grande epidemia, calamitas calamitatum come erano soliti chiamarla i prelati e le oche starnazzanti di terrore che erano gli esseri umani, resi folli di fronte alla peste. Nemmeno fosse la peggior esplosione di un morbo che si fosse mai vista. Fu qualcosa di memorabile, questo devo concederlo, ma nulla di unico o irripetibile. Altrimenti io non sarei qui a scrivere, in questo momento.
Ma ammettiamo anche che sia vero, che la peste del 1630 sia stata la più terribile ad aver mai solcato l’Europa. Ammettiamolo pure perché tutto sommato mi fa piacere che così venga ricordata: in fin dei conti sono pur sempre morto proprio in quell'anno, apprezzo essere associato a un evento di tale portata.
La Grande Peste non fu affatto tale. Grande forse sì, ma quanto a peste, suppongo sia tutta questione del nome che diamo alle cose.
Di certo non era una malattia. Nulla a che vedere con lo scolo o il morbillo o la sifilide, tutte brutte bestiacce di natura prettamente terrena e mortale.
La Peste è altro.
È corpi che soccombono alla febbre e alle pustole, è spasmi e grida di donne e puzza di putredine. La Peste è il suono di campanelli che accompagna la comparsa di figure in rosso dalle maschere a becco, monatti che raccolgono i cadaveri e li portano via.
Dall'Untore.
La Peste è morti che si rialzano, putride sacche di carne e fame con un solo obiettivo: servire il loro signore, spargere il morbo.
Ma anche di questo avrò modo di parlarvi.

Io sono don Rodrigo, e questa è la mia storia.

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