Il tormentoso periodare di pensieri e di sentimenti che annoda i versi sia di Fortis sia di Biafora, sviscera una diversa fisionomia del mondo, una differente fattezza dell’universo di chi, sensibile alla vita, ne resta ferito; di chi, rifiutando l’illusione e l’incantamento di ciò che appare, rifugge in un periodico isolamento interiore. Perché non c’é storia, e dunque, tempo, in una condizione umana che non conosca la solitudine e il silenzio e che ci allontani dalla nostra identità. E allora la Poesia restituisce la voce al linguaggio delle lacrime e, insieme, a quello della speranza, e si fa testimone di una intensa vita interiore che, come un dono, offre ai lettori per potervisi ritrovare. E anche se noi non siamo capaci di misurare la profondità dello strazio del poeta, siamo portati a rispettarlo perché sentiamo di appartenere allo stesso consorzio umano.
Sebbene il mondo dell’autore risulti talvolta volontariamente poco accogliente per concedere spazio ai suoi più intimi tormenti, vi è una permanente positività nei suoi componimenti, cornice che scandaglia l’animo umano nelle sue forme relazionali basilari, ossia con se stesso, con gli uomini, con Dio e, talvolta, anche con i propri defunti. Per far questo, Michele Biafora non sembra essersi appellato a filosofie precostituite, ma la sua musa ispiratrice è stata la vita stessa, mai filtrata da ideologie preordinate, mai infarcita di prospettive di seconda mano.
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