Mar Ionio: Quattro racconti
- Autore
- Alfio Squillaci
- Editore
- Alfio Squillaci
- Pubblicazione
- 24/06/2015
- Categorie
I primi due racconti , “Amore alla siciliana” e “La televisione” furono scritti nel ’78 in un unico “fiato creativo”. Sono composti nel “linguaggio nativo” siculo-jonico e nello spirito grezzo e naïve di svelti resoconti di fatterelli un po’ cochon.
Possono rintracciarsi nei testi diverse influenze letterarie nonché metaletterarie. Si forniscono qui alcune tracce: per il lessico l’autore deve uno speciale ringraziamento al proprio ceppo d’origine (la madre, le vecchie zie) e al proprio ceto sociale: la plebe urbana etnea; ma per le questioni formali, di trattamento della materia letteraria, ha contratto vistosi debiti con Stefano D’Arrigo e soprattutto con la tradizione novellistica italiana. (Andrea Camilleri in quegli anni era impegnato ancora in regie televisive ed era totalmente ignoto alle patrie lettere).
Infine, per questi due racconti, l’autore crede di dover qualcosa al “grottesco” della prima Wertmüller e al film di Ettore Scola “Brutti, sporchi e cattivi” in relazione alla trattazPossono rintracciarsi nei testi diverse influenze letterarie nonché metaletterarie. Si forniscono qui alcune tracce: per il lessico l’autore deve uno speciale ringraziamento al proprio ceppo d’origine (la madre, le vecchie zie) e al proprio ceto sociale: la plebe urbana etnea; ma per le questioni formali, di trattamento della materia letterari, ha contratto vistosi debiti con Stefano D’Arrigo e soprattutto con la tradizione novellistica italiana. (Andrea Camilleri in quegli anni era impegnato ancora in regie televisive ed era totalmente ignoto alle patrie lettere).
Infine, per questi due racconti, l’autore crede di dover qualcosa al “grottesco” della prima Wertmüller e al film di Ettore Scola “Brutti, sporchi e cattivi” in relazione alla trattazione visiva della materia popolare.
Il terzo racconto “I sogni di Maria”, adotta uno stile più regolato, riduce il voltaggio espressivo a favore di una referenzialità narrativa più decisa: al bozzetto in simil-dialetto succede il racconto realista in lingua molto pulita. Anche qui, reminiscenze letterarie, soprattutto il Flaubert di “Un cuore semplice”. Ma c’è anche una cifra simbolica nel racconto ovvero una pretesa metaforizzante. Maria – l’autore autorizza tale lettura – può essere vista come allegoria antropomorfa della Sicilia, coi suoi sogni e bisogni di modernità, così penalizzata nel confronto con le civiltà superiori, colta nel guado di un trapasso di civilizzazione culturale in cui gli elementi ionici, mediterranei, premoderni, mal si sposano con le esigenze regolatrici e moderne della civiltà occidentale. In questo racconto ci si innalza un po’ nell’indagine socio-letteraria dei ceti, ed è qui è di scena la piccola borghesia.
“Il salone del Marchese”, racconto lungo che chiude la serie, pretende di avere una tesi da dispiegare: evidenziare i disturbi comportamentali dell’intellighenzia ionica post-sessantottesca alle prese con la propria perifericità dello spirito.
L’autore – spirito ionico, vivente da decenni a Milano – ebbe modo di formarsi nell’ambiente universitario nel racconto ritratto e di osservare da presso i vizi di origine che vi sono ampiamente dispiegati. Innanzi tutto l’ “astrattismo” della nostra intellighenzia universitaria, insomma questa nostra inclinazione, tutta costiera e mediterranea, di risolvere la realtà in linguaggio, in perenne dibattito; questo eleatismo esasperato teso a disquisire sulla natura del fuoco mentre la casa brucia, questa incapacità dell’intellettuale meridionale di saper leggere la propria realtà locale e attrezzarsi con strumenti più rigorosi e meno fumistici. In secondo luogo è di scena il “provincialismo” a cui negli anni ’70 la gioventù etnea reagiva con la voglia smodata di essere “up to date” rispetto alle nuove norme di costume imposte dai media e febbrilmente importate. Peraltro su questa superficie di modernizzazione indotta, il retaggio del tradizionalismo e dell’arcaismo non tarda a prendersi le proprie grottesche rivincite.
Possono rintracciarsi nei testi diverse influenze letterarie nonché metaletterarie. Si forniscono qui alcune tracce: per il lessico l’autore deve uno speciale ringraziamento al proprio ceppo d’origine (la madre, le vecchie zie) e al proprio ceto sociale: la plebe urbana etnea; ma per le questioni formali, di trattamento della materia letteraria, ha contratto vistosi debiti con Stefano D’Arrigo e soprattutto con la tradizione novellistica italiana. (Andrea Camilleri in quegli anni era impegnato ancora in regie televisive ed era totalmente ignoto alle patrie lettere).
Infine, per questi due racconti, l’autore crede di dover qualcosa al “grottesco” della prima Wertmüller e al film di Ettore Scola “Brutti, sporchi e cattivi” in relazione alla trattazPossono rintracciarsi nei testi diverse influenze letterarie nonché metaletterarie. Si forniscono qui alcune tracce: per il lessico l’autore deve uno speciale ringraziamento al proprio ceppo d’origine (la madre, le vecchie zie) e al proprio ceto sociale: la plebe urbana etnea; ma per le questioni formali, di trattamento della materia letterari, ha contratto vistosi debiti con Stefano D’Arrigo e soprattutto con la tradizione novellistica italiana. (Andrea Camilleri in quegli anni era impegnato ancora in regie televisive ed era totalmente ignoto alle patrie lettere).
Infine, per questi due racconti, l’autore crede di dover qualcosa al “grottesco” della prima Wertmüller e al film di Ettore Scola “Brutti, sporchi e cattivi” in relazione alla trattazione visiva della materia popolare.
Il terzo racconto “I sogni di Maria”, adotta uno stile più regolato, riduce il voltaggio espressivo a favore di una referenzialità narrativa più decisa: al bozzetto in simil-dialetto succede il racconto realista in lingua molto pulita. Anche qui, reminiscenze letterarie, soprattutto il Flaubert di “Un cuore semplice”. Ma c’è anche una cifra simbolica nel racconto ovvero una pretesa metaforizzante. Maria – l’autore autorizza tale lettura – può essere vista come allegoria antropomorfa della Sicilia, coi suoi sogni e bisogni di modernità, così penalizzata nel confronto con le civiltà superiori, colta nel guado di un trapasso di civilizzazione culturale in cui gli elementi ionici, mediterranei, premoderni, mal si sposano con le esigenze regolatrici e moderne della civiltà occidentale. In questo racconto ci si innalza un po’ nell’indagine socio-letteraria dei ceti, ed è qui è di scena la piccola borghesia.
“Il salone del Marchese”, racconto lungo che chiude la serie, pretende di avere una tesi da dispiegare: evidenziare i disturbi comportamentali dell’intellighenzia ionica post-sessantottesca alle prese con la propria perifericità dello spirito.
L’autore – spirito ionico, vivente da decenni a Milano – ebbe modo di formarsi nell’ambiente universitario nel racconto ritratto e di osservare da presso i vizi di origine che vi sono ampiamente dispiegati. Innanzi tutto l’ “astrattismo” della nostra intellighenzia universitaria, insomma questa nostra inclinazione, tutta costiera e mediterranea, di risolvere la realtà in linguaggio, in perenne dibattito; questo eleatismo esasperato teso a disquisire sulla natura del fuoco mentre la casa brucia, questa incapacità dell’intellettuale meridionale di saper leggere la propria realtà locale e attrezzarsi con strumenti più rigorosi e meno fumistici. In secondo luogo è di scena il “provincialismo” a cui negli anni ’70 la gioventù etnea reagiva con la voglia smodata di essere “up to date” rispetto alle nuove norme di costume imposte dai media e febbrilmente importate. Peraltro su questa superficie di modernizzazione indotta, il retaggio del tradizionalismo e dell’arcaismo non tarda a prendersi le proprie grottesche rivincite.
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