Favola delle cose ultime (Supercoralli)

C'era una volta una terra strana, diversa da tutte le altre: terra d'acqua, l'ha chiamata un poeta. Era il mondo delle risaie. non le risaie come le conosciamo ora, dopo l'avvento della chimica e dei diserbanti, che le hanno trasformate in bacini spenti dove si produce il riso. Al contrario, le risaie brulicanti di vita. Ma anche di sogni. E di pensieri estremi. Pensieri che riflettono il cielo nella terra. E la terra nel cielo. Come le risaie, appunto. Anche la gente che vi abitava era gente strana. Forse per via di quei sogni e di quei pensieri. Sia come sia, da quelle parti le cose ultime, vale a dire le questioni sulla vita e sulla morte che nessun filosofo sembra piú disposto ad affrontare, ma che in fondo sono le sole degne, trovavano sempre qualcuno che osasse riproporle: un vagabondo, un vecchio prete, un agrimensore che era stato amico di Gadda, un ex calciatore della Pro Vercelli, due montanari un po' balordi come i loro nomi Luno e Laltro, e tanti ancora, per non parlare delle mondine... Come se problemi un tempo al centro dell'attenzione, ma ormai materia di favola, si fossero persi e arenati in quella regione di confine, dove le geometrie perfette dei campi aprono sull'infinito. Il protagonista di questo che è anche un romanzo filosofico - un ragazzino dai natali incerti di nome Ranabota - prende terribilmente sul serio le domande che hanno nutrito la sua infanzia e la sua adolescenza, come se ne andasse della sua stessa vita. E infatti ne va. Trascinato, piú che dagli eventi, dalla sua inquietudine intellettuale, viene a trovarsi in modo nient'affatto casuale nel luogo in cui tutti i nodi si stringono: a Sarajevo, nell'infuriare della guerra. Il suo è un disperato soccombere nella sordità generale. Ma qualcosa rimane. Qualcosa come una ferita sulla superficie del nulla.

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