La grammatica del bianco

Wimbledon, 5 luglio 1980.
Di qua c’è l’Orso: alto e biondo come un dio vichingo, infaticabile, una macchina bella e perfetta. Di lì c’è il Genio: piccolo e riccioluto, rapido e indisponente col suo gioco d’istinto e d’attacco. Uno è il campione in carica Björn Borg, l’altro John McEnroe. Insieme, quel giorno, riscriveranno la storia del tennis. E poi eccolo lì, con la divisa verde e viola dei raccattapalle di Wimbledon c’è anche lui, Warren Favella, undici anni e un talento innato per la solitudine. Porge gli asciugamani ai giocatori, li rifornisce di palline, ne osserva da vicino i tic, i gesti tecnici e quelli scaramantici, ci racconta ammirato e incredulo tutto ciò che accade in campo davanti ai suoi occhi. E intanto ci parla di sé, di come e perché sia cascato anche lui dentro le tre ore e cinquantatré della finale, mettendo da parte in un sol colpo i pomeriggi sui libri, le ansie di sua madre, il sogno di diventare casellante (“Perché è un lavoro triste e i lavori tristi oggi non li vuole fare più nessuno”) e la ricerca di qualsiasi cosa possa parlargli di un padre che non ha mai conosciuto.
La grammatica del bianco è un romanzo lieve e profondo, divertente e intenso, su quanto sia duro e avvincente trovarsi soli al di qua di una rete, accogliere la sfida di uno scambio, giocarlo, perderlo e dimenticarlo in fretta per affrontare al meglio il successivo. In altre parole: su quanto sia duro e avvincente diventare grandi, dentro e fuori un campo da tennis.

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