Il centauro (Letture Einaudi Vol. 57)

George Caldwell è un insegnante che non sopporta più la scuola e i suoi studenti, suo figlio Peter non ha amici, ama Vermeer e soffre di psoriasi. Entrambi sognano di andarsene via dalla cittadina della Pennsylvania in cui vivono. Il sacrificio di uno salverà l'altro, come Chirone con Prometeo? Con Il centauro Updike dimostrò che con la scrittura sapeva fare tutto. Un'onnipotenza virtuosistica che riesce ancora oggi a incantare il lettore. Basta prendere l'incipit del romanzo o la lunga scena della lezione di astronomia per capire come il minimo dettaglio realistico riesca a caricarsi di significati che lo trascendono, ogni infelicità individuale si proietti nel pulsare di una ferita cosmica. Con i suoi piani narrativi cangianti e l'alternanza (o la mescolanza) tra personaggi realistici e mitologici, è il romanzo più ardito di Updike, forse il più affascinante. *** C'è un qualcosa che colloca Il centauro al centro della poetica di Updike, e ne fa la chiave di volta per comprendere anche altre sue opere agli antipodi per stile, struttura, concezione narrativa. Come ci ricorda Adam Begley nella sua notevole biografia, durante il discorso di accettazione del National Book Award Updike avrebbe sottolineato come «sia il libro che il suo eroe sono centauri», creature di invenzione nelle quali il terreno e il celeste, l'ordine e il caos, la bontà naturale e l'insopportabile pedanteria, ma anche il mitico e l'ordinario, il reale e il surreale, l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande, coesistono e si alternano sul proscenio. Un'ambivalenza e una coesistenza di opposti che ha senza dubbio nel personaggio di George Caldwell la propria compiuta incarnazione: un uomo buono che, citando ancora le parole di Updike, è al contempo «esilarante e lagnoso: una sorta di chiassoso altruista; una persona che combina il bene e la sua assenza in un modo interessante, e spesso comico». Un centauro, appunto. Dalla prefazione di Luca Briasco

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