De profundis (Piccola biblioteca Adelphi Vol. 95)

Fra il giugno 1944 e l’aprile 1945, rifugiato in una casa di famiglia nel basso Friuli, Satta scrisse queste pagine, cariche di sarcasmo e profonda amarezza, nel tentativo di risalire a certe ragioni nascoste della paradossale, atroce storia italiana dei vent’anni precedenti. E subito si poneva due domande inevitabili: perché gli italiani avevano accettato, e nella stragrande maggioranza sostenuto, il fascismo? E perché, una volta spinti nella guerra, quegli stessi italiani avevano subito sperato nella sconfitta? Più che sul ripugnante manipolo dei veri fascisti, attori occasionali e brutali, ma sempre accompagnati da una «scia di ridicolo», l’occhio di Satta si fissava sulla figura dell’«uomo tradizionale», il medio cittadino di stampo ottocentesco, attaccato alla libertà soltanto come «garanzia del privilegio»: era lui che l’aveva subito ceduta al fascismo, impaurito dagli squarci che si erano aperti nel vecchio ordine; era lui che aveva accettato la «servitù per non morire». Così, quando l’ultima guerra aveva rivelato la sua natura di «spettacoloso omicidio rituale», quello stesso «uomo tradizionale», figura ormai grottesca e stravolta, ma pur sempre universalmente diffusa, preso dal panico si era buttato a sognare l’impossibile restaurarsi di un vecchio ordine che ancora una volta lo tranquillizzasse. Questa è la durissima, cupa visione che Satta ci presenta: traversata da continue, e talvolta sgradevoli asprezze, è sostenuta da una vena di grande moralista nero, oltre che dalla dolorosa asciuttezza del narratore che si sarebbe poi rivelato col "Giorno del giudizio".

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