Una risata nel buio

«C’era una volta un uomo che si chiamava Albinus, il quale viveva in Germania, a Berlino. Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per un'amante giovane; l'amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore dei modi». È probabile che il lettore di oggi, aprendo "Una risata nel buio" e leggendone le prime righe, abbia la stessa reazione del suo editore americano nel 1938. Ma come, si era detto il disgraziato, questo Nabokov mi ha chiesto di ritradursi il libro da solo perché la versione uscita tre anni prima in Inghilterra lo aveva sconciato, e adesso mi presenta con un altro titolo un testo completamente diverso da quello che ho letto? E con un attacco che dice tutto? E ora cosa racconterà, visto che la trama l'ha svelata subito? Sono tutte domande legittime, ma futili. E, soprattutto, contengono già le risposte. L'autore aveva rifatto "Kamera obskura" – questo il titolo della prima versione – perché continuava in realtà a riscrivere la storia che avrebbe portato fino in fondo solo vent’anni dopo, in "Lolita". E aveva scelto quell'attacco perché nel frattempo si era formato una sua personalissima idea del gioco infinito e appassionante che, prima di tutto, un libro deve essere. Quanto al resto della storia, alla materia che il romanzo in tre righe con cui inizia non contiene – be’, molto semplicemente, è la letteratura. Ovvero, per usare un suo sinonimo corrente, Vladimir Nabokov.

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