La guerra invernale nel Tibet

«Sono un mercenario, e sono fiero di esserlo». A parlare è il colonnello FD 256323: questo il numero che gli hanno assegnato quando si è arruolato al servizio dell'«amministrazione», venti o trent'anni prima – non ricorda bene, e del resto chi lo conta più il tempo? Allora la terza guerra mondiale con le sue devastazioni nucleari aveva decimato l'umanità e reso inabitabile gran parte del pianeta, e i combattimenti si erano concentrati nel Tibet, «ad altitudini fantastiche, su ghiacciai, morene, dirupi, nei crepacci e sotto pareti a strapiombo», oltre che nello sterminato dedalo di gallerie scavate all'interno di poderosi massicci, dove feroci fazioni avversarie a sorpresa si incontrano e si massacrano. L'unica cosa che conta, come il colonnello sa bene, è non mettere mai in dubbio l'esistenza del nemico, altrimenti come si spiegherebbero il dolore e la sofferenza? Ma ora che è rimasto solo nell'oscurità silenziosa di una caverna, privo di gambe e con delle protesi al posto delle mani – a sinistra un mitra innestato sul braccio, a destra un assortimento di attrezzi polivalenti –, ha tutto il tempo per riflettere. E per incidere con il punteruolo, sulle pareti rocciose nelle viscere della montagna, l'incubo senza fine che ha vissuto – e il suo senso segreto.

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