CANTANDO POESIE

Come un laccio sciolto, il verso di Giampaolo Bellucci è corto, è timido e furioso, non è nutrito dalla parola né dall’immagine ma da un singhiozzo rapido, quasi infantile, che smuove a tratti il petto della frase, scoprendo una poesia-canzone appena sussurrata. Viaggiare, scrivere: provare a non soffrire più. Pochi temi e, in fondo, tutti melodici. Ma un poco che non è inedia, bensì la più profonda introversione rispetto alla vita, così come accade quando si resta troppo con sé stessi.
Cantando poesie ha un’intelaiatura di pastelli e forse di disegni tracciati col pennarello. L’esistenza è quella che è e non fa sconti. Tuttavia, non dà rancore. Anzi scrivere poesie sembra che serva soprattutto a questo: a svuotarsi, a lanciare lontano dal corpo e dalla voce il risentimento. Non è facile individuare una logica di lettura. Il libro di Bellucci, nonostante la sua vocazione all’antologia, sembra la stessa esperienza – intendo la medesima necessità psicologica – riprovata e ritrovata cento e cento volte, come fosse un gioco al solitario, una visione dentro un sogno, laddove si cammina leggeri.
Cantando poesie ha poche ombre e poca luce. Possiede un’illuminazione tonda e diffusa, ma con un che di pulviscolo percettibile, come se ogni sillaba fosse messa in chiaro dalla stessa minuta luce di una lampada da tavolo. E’ un effetto commovente. Per quanto la visione sia generalmente di luoghi aperti (cieli, aria vista da una finestra, l’angolo di una piazza, il gomito di una via), ciò che ci ritorna sugli occhi mentre leggiamo è una condizione di tristezza perdurante e sottile, come una camicia leggera sulla pelle. E’ qualcosa, appunto, di rotondo, di mai percussivo. Ripeto, un’emozione amara o troppo dolce che sale piano e subito scompare.
Forse sta qui il talento lirico di Bellucci: in questa poesia con un tempo corto e tagliato, la vita si dà tutta. Come la storia di quel chitarrista, un tempo Dio e poi nell’oblio. O quella di un amico compositore, che non sa e non vuole accettare o forse nemmeno se lo ricorda più – che la vita, insomma, si è spenta, non si è mai illuminata: è rimasta a metà del vuoto.

Arnaldo Colasanti

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