Le parole gentili del pesce rosso: Si era convinta che dal mondo non poteva aspettarsi che questo
- Autore
- Alessandro Leone
- Pubblicazione
- 06/02/2018
- Categorie
“Portami un caffè.” Le aveva detto la voce roca distesa sul letto.
Come un soldato silenzioso lei si era alzata. Dopo aver abbracciato la vestaglia di sempre, con minuziosa devozione, aveva preparato il caffè di ogni mattina, sputato nella tazza, versato il liquido bollente.
Lo aveva posato sul comodino, lì vicino alle medicine.
La mano le accarezzava il sedere, non come se fosse un grazie, ma come una curvilinea definizione di una sua proprietà.
Il pesce rosso osservava la scena dalla bolla d'acqua che Dio gli aveva dato come confine della sua esistenza.
Da qui guardava un mondo, che spesso non comprendeva.
Come quella volta che Asha aveva fatto un caffè ad una sua cara amica della Somalia, ed invece di sputarci dentro come al solito, ci aveva messo un generoso cucchiaio di zucchero.
Il vaso con l'esserino arancione stava sul tavolo della sala con la porta a vetri aperta, che sembrava un sipario spalancato sul teatro della camera da letto.
Da lì proveniva l’eco di mugugni e respiri affannosi, che la vestaglia per terra ai piedi del letto raccoglieva, mentre i corpi nudi nella casa vuota si aggrovigliavano, come se cercassero l'uscita dal mondo.
Asha e Naiima erano state fortunate.
Un mese prima le televisioni avevano fatto vedere quei 348 corpi che galleggiavano sgraziati sull'acqua scura del mare.
Questo era un bene perché tutti dicevano “È una vergogna, è una vergogna.” Così nel centro di smistamento si erano affrettati e le avevano spedite dritte dritte a Schiavi d' Abruzzo, 1172 metri di altitudine, un paese piccolo piccolo dove faceva un cazzo di freddo grande grande. Come portare un eschimese nel Sahara, ma al contrario.
Qui Asha aveva fatto una cosa straordinaria, unica, inimmaginabile a Mogadiscio: era andata a scuola.
Come un soldato silenzioso lei si era alzata. Dopo aver abbracciato la vestaglia di sempre, con minuziosa devozione, aveva preparato il caffè di ogni mattina, sputato nella tazza, versato il liquido bollente.
Lo aveva posato sul comodino, lì vicino alle medicine.
La mano le accarezzava il sedere, non come se fosse un grazie, ma come una curvilinea definizione di una sua proprietà.
Il pesce rosso osservava la scena dalla bolla d'acqua che Dio gli aveva dato come confine della sua esistenza.
Da qui guardava un mondo, che spesso non comprendeva.
Come quella volta che Asha aveva fatto un caffè ad una sua cara amica della Somalia, ed invece di sputarci dentro come al solito, ci aveva messo un generoso cucchiaio di zucchero.
Il vaso con l'esserino arancione stava sul tavolo della sala con la porta a vetri aperta, che sembrava un sipario spalancato sul teatro della camera da letto.
Da lì proveniva l’eco di mugugni e respiri affannosi, che la vestaglia per terra ai piedi del letto raccoglieva, mentre i corpi nudi nella casa vuota si aggrovigliavano, come se cercassero l'uscita dal mondo.
Asha e Naiima erano state fortunate.
Un mese prima le televisioni avevano fatto vedere quei 348 corpi che galleggiavano sgraziati sull'acqua scura del mare.
Questo era un bene perché tutti dicevano “È una vergogna, è una vergogna.” Così nel centro di smistamento si erano affrettati e le avevano spedite dritte dritte a Schiavi d' Abruzzo, 1172 metri di altitudine, un paese piccolo piccolo dove faceva un cazzo di freddo grande grande. Come portare un eschimese nel Sahara, ma al contrario.
Qui Asha aveva fatto una cosa straordinaria, unica, inimmaginabile a Mogadiscio: era andata a scuola.
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