Note discinte lungo viali del sentimento
- Autore
- Anthony Locar
- Pubblicazione
- 16/07/2018
- Categorie
C'è stato un periodo in cui domandavo continuamente: “Perché?”.
Avevo un uomo accanto e anni ancora inediti; formulavo sempre
una frase seguita da un punto interrogativo.
Gli intimavo, qualsiasi cosa facessi: “Chiedimi perché”.
Se mi alzavo nel cuore della notte, che decidessi di indossare un
vestito anziché un altro, che la sera prima di andare a dormire piegassi
i capelli in una grande treccia raccolta sulla nuca o lasciata libera lungo
le spalle. O ancora, quando lasciavo i capelli sciolti, lunghi fino al
fondoschiena, gli ripetevo: “Chiedimi perché lo faccio”.
Lui sorrideva scuotendo il capo.
Oppure, quando seduto sulla sua poltrona la mattina leggeva i titoli
del suo quotidiano ed era mia abitudine prendere posto su uno dei due
braccioli, alle sue spalle, e da lì sbirciavo tra le righe non tanto per
l'interesse della notizia, quanto per marcare il confine della vicinanza
senza che si rendessero necessarie le parole.
In tanti anni non mi ha mai ascoltata, quando lo scoprivo a fissarmi
e, puntuale, gli domandavo: “Chiedimi perché”.
Lui? Mi ha sempre regalato lo stesso sorriso: vago, sfuggente. Figlio
del disincanto.
Una volta soltanto ricordo di aver insistito più che in altre
circostanze: “Chiedimelo!”, ho intimato implorandolo, “almeno una
volta, chiedimi… Perché?”.
Al posto del solito sorriso mi ha fatto eco una domanda, di rimando:
“Perché?”.
Un altro, l'ennesimo punto di domanda in coda alla lista dei miei
muti perché.
Forse non dovrei proseguire.
Avevo un uomo accanto e anni ancora inediti; formulavo sempre
una frase seguita da un punto interrogativo.
Gli intimavo, qualsiasi cosa facessi: “Chiedimi perché”.
Se mi alzavo nel cuore della notte, che decidessi di indossare un
vestito anziché un altro, che la sera prima di andare a dormire piegassi
i capelli in una grande treccia raccolta sulla nuca o lasciata libera lungo
le spalle. O ancora, quando lasciavo i capelli sciolti, lunghi fino al
fondoschiena, gli ripetevo: “Chiedimi perché lo faccio”.
Lui sorrideva scuotendo il capo.
Oppure, quando seduto sulla sua poltrona la mattina leggeva i titoli
del suo quotidiano ed era mia abitudine prendere posto su uno dei due
braccioli, alle sue spalle, e da lì sbirciavo tra le righe non tanto per
l'interesse della notizia, quanto per marcare il confine della vicinanza
senza che si rendessero necessarie le parole.
In tanti anni non mi ha mai ascoltata, quando lo scoprivo a fissarmi
e, puntuale, gli domandavo: “Chiedimi perché”.
Lui? Mi ha sempre regalato lo stesso sorriso: vago, sfuggente. Figlio
del disincanto.
Una volta soltanto ricordo di aver insistito più che in altre
circostanze: “Chiedimelo!”, ho intimato implorandolo, “almeno una
volta, chiedimi… Perché?”.
Al posto del solito sorriso mi ha fatto eco una domanda, di rimando:
“Perché?”.
Un altro, l'ennesimo punto di domanda in coda alla lista dei miei
muti perché.
Forse non dovrei proseguire.
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