Un tema su Pier Paolo Pasolini

Per riuscire nel gravoso intento di districare la matassa eclettica della produzione di Pier Paolo Pasolini, il proposito di percorrerne le fasi dagli anni della formazione all’incontro con le borgate romane (e le sue rivelazioni di senso), fino all’amara presa di coscienza finale, può fungere da modalità chiarificatrice, senza però alterare l’eterogeneità di fondo. Percorrendo una parabola che è poi anche la parabola discendente del nostro Paese, è così messa in luce una figura di intellettuale che non sa e non può distinguere il sentimento poetico della realtà dal calderone degli eventi che l’hanno modificata, incidendo profondamente sulla società, sulla cultura, sulla storia. La stagione più spiccatamente polemista di Pasolini lo consacra a “corsaro” e “luterano”. Non è casuale la scelta di termini, la cui semantica rimanda immediatamente al marchio di opposizione ed emarginazione. Pasolini ha lottato da sempre per riconoscersi e farsi riconoscere. Il sentimento di appartenenza alla Vita, alla quale è disperatamente attaccato, ha faticato a conciliarsi con l’idea della perdita di un’edenica felicità, presente soltanto nel ventre materno, nelle illusioni misticheggianti, in mondi arcaici e semplici, e forse per questo portatori di complicatezza, catalizzatori di senso. Se ci è possibile oggi restituire un distillato del suo pensiero, è solo a partire da un’affinità elettiva che lega il lettore allo scrittore, generando un patto eterno e immutabile. Siamo attratti da Pasolini anzitutto, e irrimediabilmente, come l’uomo è attratto da un uomo, come un pensiero è attratto dalla riva che più gli è dolce, familiare. Il coraggio di sottolineare drammaticamente il proprio Io, di spezzare le convenzioni, di disobbedire, di scandalizzare, di negare i poteri mistificatori sono elementi che ci suggeriscono la perdita di un oggetto d’amore, e cioè la perdita dell’ultimo vero intellettuale dissidente e radicale. Così come Pasolini rimpiangeva una generazione perduta, così noi rimpiangiamo una modalità di pensiero che sia capace di tolleranza e indignazione, che sia nostalgica e insieme propositiva, che odi ed ami in egual misura, che tenti l’impossibile e s’arresti all’evidenza. Pasolini raccoglie la contraddizione del reale, la trasforma in versi, e dai versi la ingloba nella prosa, fino a quegli articoli-innesti che La Porta non manca di definire “articoli di poesia”, o “micro-saggi di natura personale”. È un esperimento, è evidente, anche di natura formale: il verso delle Poesie a Casarsa vira progressivamente verso il discorsivo, risucchiato dalla concretezza, sempre più autobiografico, individuale e civile. Alla sterilizzazione del verso coincide il crollo delle illusioni, ma la silenziosa speranza di ritrovare il lampo di una lucciola è un motivo conduttore che non sfuggirà al lettore attento. Il libro si struttura in due capitoli, entrambi ordinati secondo un asse diacronico che non distoglie mai l’attenzione dalle dinamiche sostanziali, formali e più schiettamente personali dell’autore. Al secondo capitolo è affidato il tentativo di analizzare il periodo compreso tra il 1973 e il 1975, spazio privilegiato della vis polemica, in cui si celano gli svariati impulsi delle stagioni precedenti. Le citazioni al testo vogliono aiutare il lettore ad orientarsi nel magmatico lavoro di pubblicazione per periodici, giornali e quotidiani come “Il Tempo”, “Il Mondo” e il “Corriere della Sera”. Il criterio di selezione degli interventi polemici è affidato ad una selettività arbitraria. La scelta è stata orientata dalle soluzioni che sembravano più atte a scevrare i concetti di “mutazione antropologica”, “omologazione culturale”, “età tecnocratica”, “principio di edoné, “neo-fascismo borghese”. In quest’ottica, l’impostazione-guida di stampo sociologico-politico individua snodi tematici che, per eccezionale lungimiranza, trovano continuità col nostro tempo, uscendone anzi rafforzati e potenziati.

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