Terzetto di signorine

— Il treno per Aquila? — domandò —Ettore Boni al primo ferroviere che vide fermo sul marciapiede, sotto la vasta tettoia di cristallo affumicata e fragorosa.
— In fondo! — gli fu risposto.
Il cortese funzionario, più autorevole nel suo laconismo che nella sua divisa di panno regolamentare, gli aveva dato le più chiare indicazioni; fu per la propria inesperienza che il viaggiatore non trovò il treno lì per lì, e andò errando un bel pezzo confuso tra un monte di merci, di carretti e di bagagli, tra una folla di altri viaggiatori frettolosi che affluivano da tutte le porte, tra lunghe file di carrozzoni fermi e vuoti, allineati come casette d’un villaggio fantastico nella semioscurità della tettoia, tra due locomotive che manovravano in senso opposto e parevano sul punto di cozzare, sfolgorando dagli enormi occhi rossi, ansimando e fischiando breve, fra un gran strepito d’assi, di catene e di ruote.
— Aquila? — ripetè Ettore a un uomo gallonato, ch’egli aveva scambiato a primo aspetto per un capostazione e ch’era, invece, o un graduato della regia marina o un solenne personaggio alle dipendenze d’un solennissimo albergatore. L’uomo gallonato ci teneva in modo superlativo ai suoi galloni e reputava alquanto oltraggioso un errore di quella specie, e lo punì col silenzio e con un’occhiata di sdegno che parve la punta d’una freccia.

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