Lucrezia Bano

Della suggestione che ha originato la storia che ho scritto, ne ho fatto esperienza un mese dopo che il libro è stato pubblicato. Sembra un paradosso temporale radical chic, ma mi sembra anche ciò che più si avvicina alla verità.
Una scena in anteprima di un documentario sulla vita di Björn Andrésen. «Aveva un'idea di ciò che stava cercando, mentre provinava attori per Tadzio?» chiede un intervistatore in un filmato dell'epoca. Luchino Visconti la taglia corta, «cercavo lui. Biondo, con un bel profilo, occhi grigi. Li vede? Il colore dell'acqua, come diceva Mann. Il colore di questi occhi.» Agita le dita davanti al viso di Björn Andrésen, assente, assorto nel ritratto di statuaria incomprensione che rappresentava sia la sua esperienza da interprete sia da personaggio. Björn e Tadzio, Tadzio e Björn. "Bisogna stare attenti, con bambini così." Il ragazzino su cui la troupe non doveva nemmeno posare lo sguardo, come la moglie velata di uno sceicco. Eppure qualcuno, qualcosa, lo guardava, e Visconti rese eterno quello sguardo su di lui, quello sguardo interdetto. "Il modo in cui Visconti mi diresse si può riassumere circa in quattro parole: cammina, fermati, girati, sorridi". Björn che non parlava il francese, non parlava l'italiano. "Adesso ha sedici anni, direi che è vecchio" ghignava Visconti a Cannes mentre presentava Morte a Venezia.
Qualsiasi cosa fosse il genio del libro che ho scritto, era esattamente quella cosa. Quel demone della letteratura classica che un attore svedese si portava dentro senza saperne nulla, e il qualcuno che invece sapeva esattamente cosa farne.