La Cavaliera della Morte
«Se Maria Antonietta ci tocca così profondamente e signoreggia le anime con un potere di commozione tanto sovrano, è solo “perché non è una santa”» scrive Bloy sulla soglia di questa sua «prima prova letteraria» che ne prefigura l’intera opera, «e perciò i suoi formidabili tormenti di regina, di sposa e di madre non possono propriamente essere chiamati un martirio». Ma che cosa furono, allora? Spogliata di ogni veste sulla linea di confine con la Francia, allorché vi giunge quattordicenne come fidanzata del re, e subito gravata dell’invisibile fardello dell’Etichetta, osteggiata e dileggiata a ogni passo, nella sua amabile sventatezza, come «l’Austriaca», la regina sembra addensare su di sé la vendetta della Storia che, nel momento in cui pretende di emanciparsi dalla teologia del sacrificio, esige una nuova vittima sacrificale e sceglie, in quanto necessaria all’espiazione, la più scandalosamente ingiusta. Tutto il secolo diciottesimo, «epoca meravigliosamente superficiale in cui sembra che tutti nascessero con il dono di non capire nulla delle cose superiori», si coalizza contro di lei sino a ridurla a vedova Capeto, disegnata con astio da David sulla carretta che va al patibolo, poco prima che diventasse «la regina ghigliottinata giuridicamente dalla Canaglia». Alle ombre della Storia risponde la veemente eloquenza di Bloy, proiettandole su una scena ulteriore, metastorica, dove l’apparizione di Maria Antonietta «in veste di criminale» davanti al «bruto» Fouquier-Tinville si impone come «dimostrazione di una qualche legge misteriosa».
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