Perché la Divina Commedia in dialetto, che è così bella in italiano e anzi è una colonna portatrice della lingua nazionale? Forse una passione un po‟ snob? Un pretenzioso esercizio di stile? Meglio allora pensare ad una rilettura della Commedia, ad una rivisitazione compiuta con altri occhi e così poter andare ancora più in profondità, fin oltre il testo. Il cambio di registro linguistico sembra a prima vista “abbassare” il tono solenne del capolavoro dantesco e non essere sufficientemente attrezzato per reggere una simile impresa, considerando che tra l‟altro la Commedia è anche una “summa” del sapere medievale. Così sembra cogliersi all‟approccio uno sorta di stridore fra la parlata tipica di un paesano padano e l‟arditezza nonché complessità della materia, per esporre la quale, l‟altro grande poeta italiano, Giacomo Leopardi, ha usato un‟espressione molto felice quale “lingua mortal non dice quel ch‟io sentiva in seno”. E tuttavia, man mano ci si inoltra nella lettura ci si accorge che il nuovo testo riesce ad esprimere una sua dignità linguistica ed una sua forza semantica, che assume un valore evocativo particolare, intimistico, quasi ancor più vissuto, e sembra che il nostro autore quasi diventi compagno di strada di quello straordinario viaggio di Dante e Virgilio, oppure che sia intento a ripercorrerne le tracce ancora (e forse eternamente) fresche e leggibili. I personaggi, soprattutto, più ancora delle situazioni e delle descrizioni che pure sono rese con toni vivaci ed impressionistici, assumono qui una prossimità ed una dimensione così contigua che, quando parlano Francesca, o Ulisse, o il conte Ugolino, sembra quasi che noi si discorra famigliarmente del tale o del tal altro del nostro borgo, in uno dei tanti filòs, più o meno improvvisati e spontanei. In questo contesto, Marco Moretti suggerisce al lettore che quel meraviglioso tragitto lo può seguire anche lui, che è anche un po‟ sua storia, che gli appartiene: così il testo in dialetto diviene di fatto un testo “nuovo” in grado di suggerire una profonda riflessione sul grande valore metaforico del percorso umano attraverso l‟Inferno prima e gli altri due “regni” successivamente (ad affrontare i quali il nostro autore, ormai non potrà più esimersi dal cimentarsi dopo aver osato tanto, dopo “essere stato all‟Inferno”). Altri autori mantovani in passato si erano cimentati in questa impresa che in altri tempi sarebbe stata definita genericamente un “vulgata”, cioè una trasposizione per il popolo: sorprende in questo testo una ricchezza lessicale insospettata, il ricorso insistito e felice alle metafore, la riproposizione di espressioni arcaiche ormai perdute, specie considerando che i cosiddetti “nativi” del dialetto superstiti sono ormai una ridotta minoranza nella nostra popolazione ed il dialetto ancora in uso risulta molto omologato ed italianizzato. Il fatto nuovo e sicuramente da rimarcare, è infine che in questo ardito compito si sia cimentato una persona giovane (e come tale sottraendosi ad una possibile accusa di “vitium senectutis”) e per di più un fine letterato che ha dovuto rinunciare, o abilmente mimetizzare, il robusto bagaglio personale di provenienza accademica, per vivere fino in fondo una felice avventura. Alfredo Calendi
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