Albero secolare
- Autore
- Antonio Venditti
- Pubblicazione
- 21/06/2018
- Categorie
I fatti si sviluppano lungo il 1900, secolo funestato dalle due devastanti guerre mondiali, che incidono gravemente sulla vita della gente, costretta a interminabili privazioni e sofferenze, senza cancellare la speranza di un popolo tollerante, solidale e senza pregiudizi.
Primo Lanterna è uomo schietto e pacifico, che percorre le tappe della sua esistenza con serena determinazione, proiettato non solo al miglioramento della sua posizione senza inutili ambizioni, ma fortemente motivato nel dare un senso alla vita,
coltivando legami forti e sinceri, in famiglia e nella società, con profondi sentimenti.
Autoritratto immaginario di Pier Luigi Starace
Così mi viene da definire l’ultima creazione di Antonio Venditti, Albero secolare , pubblicato nell’aprile 2013.
Il protagonista Primo Lanterna non solo assomma tratti caratteriali riscontrabili, per chi, come me, lo conosca, nell’autore, ma anche quasi nessun tratto differenziale da lui: per questo parlo d’autoritratto.
Già il cognome evoca irresistibilmente lo strumento con cui Diogene cercava l’uomo in pieno giorno, e quindi la vocazione, fama e qualifica ufficiale di filosofo di Antonio Venditti. Il fatto che Primo viva spazialmente e temporalmente, ma non di molto, (a Roma anziché a Velletri, nato una quarantina d’anni prima) sfasato da quelli dell’autore, è un “puro, purissimo accidente”. L’autore sembra sottintendere: “Se fossi vissuto lì ed allora avrei pensato, detto e fatto come Primo Lanterna”. Ho respinto la tentazione d’imputare quest’opera ad una gozzaniana nostalgia “per le belle cose che potevano essere e che non sono state”. Sia perché il protagonista non si solleva in nessun modo ( carriera, successo, posizione sociale) dall’autore, sia perché nulla è più lontano dallo spirito di questo libro del singhiozzante decadentismo. Ne concludo provvisoriamente che la causa di questo sdoppiamento mi resta misteriosa, ma non dispero di trovare una risposta in me, e perché no, dall’autore stesso.
Ho apprezzato primariamente l’idea di far commentare i più importanti eventi storici nazionali e mondiali, da una catena di personaggi. Il giornalaio Peppe, incarnante una specie di Belli aggiornato, che li annuncia ed interpreta a modo suo, in saporitissimo romanesco, che è usato magistralmente in altre occasioni da altri personaggi. Subentra la farmacista Ottavia Tiberina, rappresentante d’un pensiero laico e progressista. Poi il prof. Aldo Giannizzeri, il dott. Virgilio Benintesi, l’avv. Umberto Androni, esprimenti posizioni diverse, ma contenute nell’ambito d’un equilibrato buon senso, e finalmente Frate Elio, apportante la posizione della chiesa, ma senza ottusi clericalismi. Insomma una specie di “convegno dei cinque” , ma senza scontri, una felice interpretazione del “dialogo” nel suo significato originario: “discorso attraverso”.
In quest’opera è il riversamento da parte dell’autore della sua vena lirica è limitato alle scene d’amore, nelle quali, come ne “Il bandito delle Regina”, raggiunge un’armonia felicissima tra essa vena ed il tessuto narrativo.
Lo sfondo storico, inciso lapidariamente, lasciando però ogni tanto il respiro alleggeritore d’accenni di colore legati alla cronaca, ha anche momenti d’alta meditazione, il cui culmine mi sembra raggiunto in quella sulla prima guerra mondiale.
Sorprendente è non tanto e non solo l’idea della “repubblica de Roma nostra”, né la ricca proliferazione delle idee ed azioni che la realizzano, quanto la sua esposizione, con la precisione terminologica e la completezza analitica d’un verbale d’assemblea di condominio, d’un atto notarile o giudiziario. E’ naturale che da questo sfondo serio, emergano per contrasto con maggior vivezza le figure, le scene, le battute, tutte saporitamente romanesche, dei personaggi.
Similmente, nella descrizione di non pochi lavori edili, sembra di aver davanti la relazione tecnica d’un ingegnere o d’un architetto: ci mancano solo i numeri dei metri lineari, quadrati e cubi. Ho pensato più d’una volta all’”école du regard” di Robe-Grillet, questa forma di oggettivismo molto in voga anche nel cinema negli anni cinquanta.
Con sguardo simile l’autore s’accosta a vari mestieri, come il ristoratore, il macellaio, il fornaio, il muratore, l’ambulante, lo spazzino, e crea un legame vitale tra la loro professionalità e quel suo “allargamento” armonizzato a quella degli altri da cui nasce la concretezza delle opere che essi realizzano per la loro “repubblica”.
Nell’ultima parte è evidente come questo sogno generoso incontri ogni giorno di più ostacoli nel decadere delle coscienze, ma l’autore non ci piange mai sopra.
Mi piace concludere con un’intuizione che spero vera. Questo sogno d’una Roma in tutti i sensi “pulita”, cioè uno dei più audaci concepibili, nasce e cresce non sulle rive del Tevere o in qualunque luogo della Roma “classica”, ma sullo sfondo ispiratore della lontana catena dei Colli Albani. Come se solo da quei boschi lontani, da quel “Latium vetus” originario, potesse spirare un vento rigeneratore.
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