Da Moby Dick all'Orsa Bianca (Piccola biblioteca Adelphi)

Hemingway era «un pezzo di cielo, e una fitta di sole» scriveva Anna Maria Ortese nel luglio del 1961 commentando l’improvvisa scomparsa di colui che le sembrava appartenere ad anni «non ancora macchiati da carneficine o tumefatti in ghiacci spaventosi» e a una generazione di padri-leoni dalla «santità animale», estranei a una intelligenza «che oggi ha scarnificato l’uomo»: con le sue opere, infatti, Hemingway proclamava l’esistenza del Tutto di cui l’uomo è parte, e attraverso i suoi occhi ragionava tranquilla e maestosa la Natura. Non v’è dubbio: chi cercasse in questi scritti che coprono oltre cinquant’anni di attività giornalistica (dal 1939 al 1994) accorte recensioni, sagaci squarci di storia letteraria, dotte e politiche riflessioni sul romanzo sarebbe del tutto fuori strada. Il metodo di lettura di una uncommon reader come la Ortese ha a che vedere anzitutto con quella «doppia vista» di cui andava dolorosamente fiera e che, quando discorre di Leopardi o di Anna Frank, di Cechov o della Morante, di Saffo o di Thomas Mann, le consente di mettere subito a fuoco, con temeraria sicurezza, la loro profonda necessità in rapporto al compito della vera letteratura: che dev’essere, sempre, «un’autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo». Compito radicale, nobile, impervio, al quale corrisponde un linguaggio lontano anni luce dalla critica letteraria cui siamo abituati, e che sembra evocare, più che definire, i suoi oggetti. Magia verificabile: sarà difficile, ormai, leggere Cechov senza avvertire, in risonanza, le parole che la Ortese gli ha dedicato.

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