Ti ucciderò, mia capitale (Biblioteca Adelphi)

Avventurandosi in questa silloge di scritti inediti, stesi fra il 1940 e il 1982, chiunque pensasse di conoscere Manganelli dovrà ricredersi, giacché l’intera sua produzione risulta illuminata come da una luce radente – quella che emana da un laboratorio segreto e pieno di sorprese. A partire dal tenebroso racconto che dà il titolo al volume: «M’ero disegnato il suo corpo come una mappa, con vene di strade e arterie di ramblas e avenues carotidee e i crescentes capezzolati e le esedre genitali» leggiamo già inquieti, e non tardiamo a comprendere che si tratta del corpo indifeso e passivo – eppure smisurato e minaccioso – di una donna che dorme. C’è un solo modo per sbarazzarsi di quell’atlante infinito, per evadere dalla casa di carne che lei ha costruito, ci spiega la nitida e allucinata voce narrante: accostarle una rivoltella alla tempia e straziarla: «Ti ucciderò, mia capitale; mio quartiere residenziale; sede del mio deportato governo; mia Stadt; esilio di turbolenti anarchici». E non meno fosca, allarmante è la bellezza degli altri racconti, nutriti di poesia barocca e dei prediletti Swift, Lamb e De Quincey, dove si agitano personaggi-paesaggio vittime di alterazioni dimensionali, visitati da incubi, metamorfosi e apparizioni polimorfiche, attraversati da forze oscure e angosce, assediati da un nulla «popolato di nulla tormentosi» – e capaci di parlarci di verità ultime quasi celebrassero una fastosa e gelida cerimonia verbale. Come colui che, nel fulminante "Un libro", illustra il colpo segreto che ci resta – la morte volontaria – quando tutto sembra perduto; la convivenza con il nostro «quotidiano assassino», il nulla; la necessità dell’odio, legittimo rifiuto delle «fascinose soluzioni sbagliate»; la vana ricerca di Dio, di cui non conosciamo che una forma ingentilita e commerciabile: «una divinità sorridente, qualunquista, transigente».

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