Vorrei...
- Autore
- Di Dio Umberto
- Editore
- Kimerik
- Pubblicazione
- 29/08/2015
- Categorie
Dapprima ad uso familiare, rivolgendosi ai nipoti, poi per una cerchia più vasta, perchè chi c’era non dimentichi e chi non c’era sappia, Umberto Di Dio continua a raccogliere spigolature di memoria: piccola memoria personale che diventa sapore di un’epoca scomparsa.
Aveva cominciato con Il Tomeschino e Regalbuto al tempo di Carmelo: esordio a 72 anni, per radunare e trasmettere i ricordi di un’infanzia ormai lontana dal paese natale, Regalbuto appunto, mimando l’incanto per la grande e perduta narrazione popolare (il Tomeschino del titolo è il Guerin Meschino nella deformazione illetterata ma potente del cantastorie o anzi cuntastorie Carmelo, che stregava quei bambini degli anni Quaranta).
Può oggi un nonno farsi cuntastorie per i suoi nipoti, può chi ha vissuto i suoi cari lasciare “un’impronta, anche piccola piccola”, come Umberto Di Dio si prefigge in apertura del suo nuovo volume intitolato Vorrei...?
Il sottotitolo, Storia di una vita normale tra immagini e parole, dice molto. C’è lo sforzo iconografico, con fotografie seppiate di famiglia, cartoline d’epoca, e illustrazioni disegnate a corredo del testo per ricostruire fattezze remote. Ci sono ovviamente le parole, che alternano ricordi personali al catalogo di luoghi, oggetti, personaggi che non esistono più. In ordine sparso: le feste popolari (a ‘ntinna, la corsa nei sacchi), i gesti perduti come la sbucciatura collettiva delle mandorle, i sapori e gli odori ma più ritrovati, le vergogne infantili e le infantili sfrenatezze, le figure strampalate e vive della Catania degli anni Cinquanta e Sessanta (citiamo fra tutti Pippu pirnacchiu), gli incontri e gli affetti, le classiche “piccole cose senza importanza” che sono però, ovviamente e giustamente, importantissime per chi le ha vissute. Ecco infatti, sempre nel sottotitolo, quella “vita normale” che però ambisce a farsi storia. Nel segno di un Vorrei... (vorrei sentire ancora quei sapori di mezzo secolo fa, vorrei rivedere i morti, vorrei rivivere la potenza delle emozioni, vorrei tornare indietro nel tempo) consapevole di essere meno che ipotetico.
Valga, a consolazione di tanta nostalgia, quella vecchia frase di Faulkner: “il passato non è affatto morto, anzi non è nemmeno passato”.
Aveva cominciato con Il Tomeschino e Regalbuto al tempo di Carmelo: esordio a 72 anni, per radunare e trasmettere i ricordi di un’infanzia ormai lontana dal paese natale, Regalbuto appunto, mimando l’incanto per la grande e perduta narrazione popolare (il Tomeschino del titolo è il Guerin Meschino nella deformazione illetterata ma potente del cantastorie o anzi cuntastorie Carmelo, che stregava quei bambini degli anni Quaranta).
Può oggi un nonno farsi cuntastorie per i suoi nipoti, può chi ha vissuto i suoi cari lasciare “un’impronta, anche piccola piccola”, come Umberto Di Dio si prefigge in apertura del suo nuovo volume intitolato Vorrei...?
Il sottotitolo, Storia di una vita normale tra immagini e parole, dice molto. C’è lo sforzo iconografico, con fotografie seppiate di famiglia, cartoline d’epoca, e illustrazioni disegnate a corredo del testo per ricostruire fattezze remote. Ci sono ovviamente le parole, che alternano ricordi personali al catalogo di luoghi, oggetti, personaggi che non esistono più. In ordine sparso: le feste popolari (a ‘ntinna, la corsa nei sacchi), i gesti perduti come la sbucciatura collettiva delle mandorle, i sapori e gli odori ma più ritrovati, le vergogne infantili e le infantili sfrenatezze, le figure strampalate e vive della Catania degli anni Cinquanta e Sessanta (citiamo fra tutti Pippu pirnacchiu), gli incontri e gli affetti, le classiche “piccole cose senza importanza” che sono però, ovviamente e giustamente, importantissime per chi le ha vissute. Ecco infatti, sempre nel sottotitolo, quella “vita normale” che però ambisce a farsi storia. Nel segno di un Vorrei... (vorrei sentire ancora quei sapori di mezzo secolo fa, vorrei rivedere i morti, vorrei rivivere la potenza delle emozioni, vorrei tornare indietro nel tempo) consapevole di essere meno che ipotetico.
Valga, a consolazione di tanta nostalgia, quella vecchia frase di Faulkner: “il passato non è affatto morto, anzi non è nemmeno passato”.
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