LA VITA NON FA SCONTI

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Un poeta insaziabile
E inarrestabile, inclassificabile, irrinunziabile, impagabile, inafferrabile. E abile. E calmo e salmodiante nella sua rabbia declinata nella summa divisio (o nelle due corde pirandelliane) di pazza e civile. Pazzia d’amori travolgenti e sovente irraggiungibili, e realtà fatta di poveri diavoli travolti dalla iella, dove l’occhio e il cuore del poeta si sposano in matrimonio insieme religioso e anagrafico-municipale, e talvolta in mera unione senza timbri e viatici sacri o profani. Il cuore di Giampaolo batte per gli umiliati e offesi, non tanto perché chi più chi meno lo siamo un po’ tutti, anche i geni, insomma non per solidarietà lacrimosa, ma per virile protesta: Giampaolo vorrebbe un mondo come un posto pulito illuminato bene, dove non regni soltanto il nada hemingwayano.
S’è intitolato questa noterella poeta “insaziabile”, perché le sue papille liriche assaporano come in una folgorante sinestesia senza fine tutti i gusti e tutti i colori, tutti i suoni e tutti i sentimenti, in una sfida all’ultima parola e all’ultima rima.
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“Inarrestabile” perché la versificazione gli fluisce dentro con furor automatico, sfornerebbe un libro al mese incurante di probabili ripetizioni o calchi, ma tant’è, scrivere è il suo buen retiro, il nido dove covare le uova dell’ingegno artistico, la dimora dove generare perle e ire, malinconie e qualche lacrima. “Inclassificabile” la sua poetica, bilicata fra “parolierismo” e manifesto engagé, fra denuncia e terapia psicologica. “Irrinunziabile”, come non gustare una “canzone” quale piacere perfino olfattivo oltre che sonoro? “Impagabile” e “inafferrabile”, per la leggerezza dura delle idee mitigata dalla cantabilità penniana o caproniana, un unicum, e sfuggente, mai catturabile senza fatica, semplicemente lanciando una rete in aria. No, la lettura si fa complessa, a volte imperscrutabile nonostante ostenti la semplicità di dettato quale chiave di base, la facilità quale leva da cui sollevare il giudizio. Si definiva abile, dunque, anche la sua poesia ha avuto bisogno di mallevadori e editor, data la quantità inondante bisognevole di selezione drastica. Giampaolo Bellucci, diciamolo a chiare lettere, è un alieno, un marziano in Umbria, che dalla operosa piatta Bastia Umbra dove vive irradia le antenne della sua emittente, simpatica, empatica, amabile creatura scesa in terra a allietare i nostri cuori sordi e muti.
Molti suoi versi son un inno alla vita e all’amore, sì con numerosi distinguo e tutti intinti nell’in159
chiostro della malinconia nostalgica e romantica, ma anche tesi, diretti, puntuti come baionette inastate, lance e frecce in duelli di lessico maturo e lieve.
«Ho odiato amato / Fino a far scoppiare / Il cuore / E ora sono qui / E penso a te / Ancora sveglio oltre le tre», dice, ma senza trauma, consapevole che il ricordo è vigile e può bastare a lenire il dolore della solitudine. E il poeta ama non solo le sue donne reali o immaginate-immaginarie, ama i granai e i fienili, i campi arati e i vigneti, «i calli nelle mani», i contadini,
gli operai, conosce la spietatezza della fabbrica; ama le partite a carte e le bestemmie e il fuoco nel camino, i calici di vino, vuol bene a «chi non ha fatto
oltre la prima» ma conosce la vita fino in fondo. «Come mi piacerebbe / Poter assistere / Al mio funerale», che è aspirazione impossibile ma affascinante.
Seduto da morto su una nuvola a guardare l’ipocrisia e l’affetto sincero, le genuflessioni e l’eucarestia e il pianto vero e la teatrale lacrima finta.
Il poeta è questo coacervo di sensazioni e emozioni,
poeta nato incontenibile e inimitabile, irrefrenabile. Però, pur fiorendo dentro giardini rigogliosi,
un sano realismo plebeo non può impedire
al poeta di gridare un preciso e reciso: «Quant’è
puttana la vita!». Roba da Ginsberg o Bukowski.
Che Bellucci sia un tardo epigono della premiata
ditta beat generation? Mi sento di negarlo.
Anton Carlo Ponti, Bevagna-Perugia, 23-24 agosto 2016

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