L'umiltà

Attilio Campi è un cinquantenne che si è ritirato a vivere in campagna, e nell’incipit fulminante del romanzo si descrive così: “Dicono che mi sono rovinato con le mie mani”. Alle spalle ha una brillante carriera politica distrutta sul più bello dalla sua stravagante proposta di legge per la reintroduzione dell’uniforme obbligatoria nelle scuole. Bocciata la proposta dal suo stesso partito, Campi, furibondo, sparisce dalla scena pubblica. Noi lo troviamo lì, nella solitudine della campagna di Roccapane, in confidente simbiosi con la natura, a rifare il verso del rigogolo, a occuparsi di legna e di irrigazione e a rimuginare contro i nemici nuovi, come il testimone di Geova che incautamente gli si presenta a casa un mattino, e con quelli vecchi, come il giornalista Ettore Mirabolani, suo antico rivale. Attilio si propone di incontrarlo, chiama a raccolta tutte le forme di ostilità per smontarle, presentarglisi davanti e consumare la pace. Aspira al traguardo dell’umiltà. Non facile, soprattutto per uno come lui.

Vorrebbe liberarsi di tutte le some che gli impediscono salvezza e leggerezza, vorrebbe sbarazzarsi della gelosia nei confronti della moglie spesso assente (donna di molti aeroporti), o delle pesanti eredità della madre e della zia Vanda. Pesanti anche in termini di ingombro, casse e casse di libri, lettere, fotografie, per disfarsi delle quali sogna ogni giorno un falò diverso, in un crescendo di fantasie barocche, senza peraltro riuscire mai a realizzarlo. Così come non riesce mai davvero a fare pace, nemmeno nella sua immaginazione, con Ettore Mirabolani, “quello stronzo”. Il cammino verso l’umiltà è fatto di continui inciampi, arresti e salite, ma l’importante non è il traguardo, è il percorso. Male che vada Attilio avrà imparato, alla fine, a fare il verso del rigogolo.

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