Il canotto insanguinato

A De Vincenzi non era mai capitato nulla di simile.
Da sette ore stava interrogando quell’uomo. Sette ore di un interrogatorio serrato e martoriante, come l’anello d’una garrotta. Ogni quarto d’ora lui dava una girata alla vite, l’anello si stringeva e l’uomo boccheggiava. Ma non sapeva dir altro che: «Perché l’avrei uccisa?».
E sopportava la tortura con una forza di resistenza, che appariva, più che sovrumana, inumana.
Inumano, del resto, quell’uomo aveva da essere, infatti. Fuori della vita comune, con un’altra sensibilità, una diversa reazione alla sofferenza, una rassegnazione stoica, da dare i brividi.
Anche d’un’altra razza, d’un’altra materia.
Fra i due, chi stava per dare il crollo, da un istante all’altro, era De Vincenzi.
In quella stanza angusta, squallida, illuminata dalla lampada del tavolo, che mandava tutta la sua luce abbagliante addosso all’uomo, si cominciava a soffocare. Nella penombra del paralume, abbassato dalla sua parte, il commissario doveva essere livido. Ogni tanto si passava due dita dentro il colletto, per quanto portasse una camicia floscia e il colletto fosse largo. Il garrottato era lui!

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