C’è del calcio in Danimarca: Il boom della Danish Dynamite anni ’80 e la favola di Euro ‘92 (Storie Mondiali Vol. 3)
- Autore
- Matteo Bruschetta
- Pubblicazione
- 24/11/2018
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Meglio vincere o divertirsi? Questa la domanda che Matteo Bruschetta si è posto mentre scriveva «C'è del calcio in Danimarca». Paese che vai, dualismo calcistico che trovi. Da un quarto di secolo in Danimarca ci si chiede: meglio la Nazionale di Messico 1986 o quella Campione d'Europa nel 1992? Due squadre agli antipodi, come filosofia, guida tecnica e interpreti.
Negli anni Ottanta, al pari del Brasile di Zico e della Francia di Platini, la spensierata Danimarca portò una ventata d'aria fresca nel difensivo calcio dell’epoca. Una squadra allenata dal tedesco Piontek e composta da campioni quali Michael Laudrup, Elkjær, Simonsen e tanti altri che abbandonarono la propria terra per cercar fortuna in Italia, Olanda, Belgio o Germania, anticipando la sentenza Bosman di almeno un decennio. Una squadra moderna calcisticamente ma antica nello spirito, tra serate in discoteca, dozzine di birre e uno stile di vita non proprio impeccabile.
La Danish Dynamite fu una squadra libera e gioiosa, come gli abitanti di questo piccolo Paese, da sempre in vetta alle classifiche della qualità della vita. Capace di sconfiggere una dopo l’altra l’Italia di Bearzot, l’Inghilterra di Robson, la Germania Ovest di Beckenbauer e altri giganti del calcio, quella squadra-falena si bruciò poi con serena incoscienza in uno sciagurato pomeriggio a Querétaro. Durante i quei Mondiali di Messico ’86, persino Diego Maradona si fece immortalare con la maglietta a righine biancorosse di una delle Nazionali più cult di sempre. Una squadra che, pur non avendo vinto nulla, è entrata nella storia, come l’Ungheria di Puskás o l’Olanda di Cruijff.
Dopo le dimissioni di Piontek e il ritiro dei campioni, la Danimarca operaia del nuovo Ct Richard Møller Nielsen si qualificò agli Europei del ’92 solo dopo l’esclusione della Jugoslavia in guerra. A ripescaggio ancora caldo, si parlò di una nazionale piovuta dalle spiagge più esotiche, dalle vacanze più spensierate. Una leggenda metropolitana, smentita dai risultati. Arsène Wenger, inviato da Platini a osservare i danesi prima del torneo, pronunciò una frase memorabile: «Cos’ho visto d’interessante a Copenaghen? Di sicuro, non la squadra che vincerà l’Europeo». Il brutto anatroccolo danese diventa invece cigno, scrivendo una delle favole più sorprendenti della storia del calcio.
Le pagine di Bruschetta sono bussole preziose, rendono atto a un popolo e alle sue imprese, a quell’essere o non essere che lo sport ha allontanato da Amleto per consegnarlo a una sintesi netta: essere, punto. Troverete nomi, cognomi, tabellini ma soprattutto sapori, aneddoti, retroscena, canti e persino cantici. Nel rispetto rigoroso dei fatti, come insegnano nelle scuole di giornalismo. In campo e fuori, se vi agganciamo il fenomeno dei Roligans, risposta quieta alle bravate dei truci hooligans.
Sullo sfondo della statua della Sirenetta, che domina l’ingresso del porto di Copenaghen, e con la colonna sonora, appena accennata, delle fiabe di Hans Christian Andersen, il viaggio dentro una piccola nazione che ha saputo esprimere una Nazionale grande, vi sorprenderà e vi conquisterà. Tanti i personaggi da raccontare: “Cavallo Pazzo" Elkjær; i fratelli Laudrup; il cantante Arnesen; il genio Simonsen, unico Pallone d’Oro nella storia del calcio danese; il portiere Schmeichel e il gregario Vilfort. Toccante la vicenda di quest’ultimo: mentre Kim partecipava agli Europei in Svezia, sua figlia Line, sette anni, lottava contro la leucemia. Icari dalle ali di ferro, non di cera. Fino a quando il sole non ne pretese il ritorno al grigio della normalità.
Gli intrecci con il calcio italiano moltiplicano le suggestioni e la complicità della trama. Leggere i passi, è come aprire un baule dimenticato in soffitta e trovarvi oggetti, quadri, foto, stoffe, dischi che la pigrizia dell’età aveva allontanato dalla modernità. Non dal cuore, però. Se avete bisogno di un «antiquario» appassionato e scrupoloso, lo troverete in Matteo Bruschetta e nel suo libro.
Negli anni Ottanta, al pari del Brasile di Zico e della Francia di Platini, la spensierata Danimarca portò una ventata d'aria fresca nel difensivo calcio dell’epoca. Una squadra allenata dal tedesco Piontek e composta da campioni quali Michael Laudrup, Elkjær, Simonsen e tanti altri che abbandonarono la propria terra per cercar fortuna in Italia, Olanda, Belgio o Germania, anticipando la sentenza Bosman di almeno un decennio. Una squadra moderna calcisticamente ma antica nello spirito, tra serate in discoteca, dozzine di birre e uno stile di vita non proprio impeccabile.
La Danish Dynamite fu una squadra libera e gioiosa, come gli abitanti di questo piccolo Paese, da sempre in vetta alle classifiche della qualità della vita. Capace di sconfiggere una dopo l’altra l’Italia di Bearzot, l’Inghilterra di Robson, la Germania Ovest di Beckenbauer e altri giganti del calcio, quella squadra-falena si bruciò poi con serena incoscienza in uno sciagurato pomeriggio a Querétaro. Durante i quei Mondiali di Messico ’86, persino Diego Maradona si fece immortalare con la maglietta a righine biancorosse di una delle Nazionali più cult di sempre. Una squadra che, pur non avendo vinto nulla, è entrata nella storia, come l’Ungheria di Puskás o l’Olanda di Cruijff.
Dopo le dimissioni di Piontek e il ritiro dei campioni, la Danimarca operaia del nuovo Ct Richard Møller Nielsen si qualificò agli Europei del ’92 solo dopo l’esclusione della Jugoslavia in guerra. A ripescaggio ancora caldo, si parlò di una nazionale piovuta dalle spiagge più esotiche, dalle vacanze più spensierate. Una leggenda metropolitana, smentita dai risultati. Arsène Wenger, inviato da Platini a osservare i danesi prima del torneo, pronunciò una frase memorabile: «Cos’ho visto d’interessante a Copenaghen? Di sicuro, non la squadra che vincerà l’Europeo». Il brutto anatroccolo danese diventa invece cigno, scrivendo una delle favole più sorprendenti della storia del calcio.
Le pagine di Bruschetta sono bussole preziose, rendono atto a un popolo e alle sue imprese, a quell’essere o non essere che lo sport ha allontanato da Amleto per consegnarlo a una sintesi netta: essere, punto. Troverete nomi, cognomi, tabellini ma soprattutto sapori, aneddoti, retroscena, canti e persino cantici. Nel rispetto rigoroso dei fatti, come insegnano nelle scuole di giornalismo. In campo e fuori, se vi agganciamo il fenomeno dei Roligans, risposta quieta alle bravate dei truci hooligans.
Sullo sfondo della statua della Sirenetta, che domina l’ingresso del porto di Copenaghen, e con la colonna sonora, appena accennata, delle fiabe di Hans Christian Andersen, il viaggio dentro una piccola nazione che ha saputo esprimere una Nazionale grande, vi sorprenderà e vi conquisterà. Tanti i personaggi da raccontare: “Cavallo Pazzo" Elkjær; i fratelli Laudrup; il cantante Arnesen; il genio Simonsen, unico Pallone d’Oro nella storia del calcio danese; il portiere Schmeichel e il gregario Vilfort. Toccante la vicenda di quest’ultimo: mentre Kim partecipava agli Europei in Svezia, sua figlia Line, sette anni, lottava contro la leucemia. Icari dalle ali di ferro, non di cera. Fino a quando il sole non ne pretese il ritorno al grigio della normalità.
Gli intrecci con il calcio italiano moltiplicano le suggestioni e la complicità della trama. Leggere i passi, è come aprire un baule dimenticato in soffitta e trovarvi oggetti, quadri, foto, stoffe, dischi che la pigrizia dell’età aveva allontanato dalla modernità. Non dal cuore, però. Se avete bisogno di un «antiquario» appassionato e scrupoloso, lo troverete in Matteo Bruschetta e nel suo libro.
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