Pedigree (Gli Adelphi)

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Pedigree (Gli Adelphi)
Autore
Georges Simenon
Editore
Adelphi
Pubblicazione
09/07/2014
Categorie
«Miliardi, miliardi e miliardi di animali sulla faccia della terra, per aria, nell’acqua, dappertutto, compiono senza sosta, minuto per minuto, uno sforzo di tutte le loro cellule verso un divenire che non conoscono, come le formiche che traversano precipizi trascinando fardelli cento volte più grandi di loro, si avventurano fra montagne di sabbia o di fango e ritentano dieci volte l’assalto a un medesimo ostacolo, senza che la loro carovana cambi strada». Così apparvero, all’occhio di Simenon, i primi anni della sua vita: innumerevoli piccoli gesti e piccole figure, grumi di pigmento su una tela sconfinata. Era un epos grandioso della piccolezza, delle esistenze oscure, una delle quali era stata la sua. Simenon viveva allora da sfollato a Fontenay-le-Comte, nel 1941. «Un medico, in base a una radiografia sospetta, mi annunciò che mi rimanevano al massimo due anni di vita e mi condannò a un’inattività quasi totale». Simenon non poteva però cessare di scrivere. Pensò a qualcosa di unico e di ultimo: raccontare la sua infanzia, in forma di lunga lettera al figlio. Poi quella lettera diventò romanzo, il più personale e segreto di Simenon, ma anche quello dove ritroviamo tutta la sostanza, in senso chimico, di tutti i suoi libri. Non è la storia dell’infanzia di un artista. Anzi, a lungo il piccolo Roger vi fa da comparsa, mentre campeggia sulla scena la minuta figura della madre Élise. Questa donna «che si scusa di esistere, di esserci, che chiede perdono prima d’aver fatto il male», ha la presenza perentoria dei grandi personaggi della letteratura. La sua fragilità è tutta apparente. Élise possiede una fibra inattaccabile e un occhio sicuro, che riconosce subito se il marito Désiré ha comprato un etto e mezzo di fegato invece di un etto.
Pochi scrittori hanno saputo illuminare come Simenon i profondi misteri della piccola borghesia, e soprattutto della sua frangia più pura, quella che lotta testardamente per non cadere nella mera povertà, quella per cui il decoro è un baluardo contro l’umiliazione perpetua. Per questi esseri, fra i quali Simenon è cresciuto, i parenti, le stanze, i vestiti, le chiacchiere dei vicini formano una rete fittissima, che oscura il cielo e grava sulla vita. Quella rete è il pedigree di cui Simenon è stato il perfetto genealogista in tutta la sua opera. Mai però la sua lente si è avvicinata così tanto all’oggetto della narrazione come in questo libro. Qui i dettagli rimangono fissati come nella mente del bambino Roger quando finge di giocare e «contempla il meraviglioso pulviscolo dorato che sale dalla camera e viene come assorbito lentamente, irresistibilmente, dall’aria umida della strada». Così Roger diventerà, senza saperlo, uno scrittore già quella sera in cui, tornando a casa, ritrova «i pochi metri cubi luminosi e caldi della cucina, e tutti al loro posto, rigidi, racchiusi nell’immobilità dell’atmosfera come gli abitanti di Pompei nella lava». Allora, «per qualche istante sente il palpitare di una vita immateriale che è quella della casa, di quella casa e di nessun’altra, percepisce quasi il rodio del tempo».
Diviso in tre parti, "Pedigree" fu scritto fra il 1941 e il 1943. La prima pubblicazione completa è del 1948.

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