La milleduesima notte

Nella primavera dell’anno 18... lo Scià di Persia, malato di malinconia e vago desiderio, compie un rapido viaggio di piacere a Vienna. Si incapriccia, a un ballo, di una bellissima nobile; e i servizievoli funzionari della polizia austriaca provvedono a offrirgliela per una notte. Ma scelgono accortamente una controfigura, una giovane donna leggera, che somiglia alla dama del ballo. Lo Scià non si accorge dell’inganno. Tornerà in Persia convinto della sublime raffinatezza dell’arte di amare in Occidente.
A partire da questa breve avventura segreta, che potrebbe rimanere sepolta nella memoria dei pochi che ne sono partecipi, si svolge una ragnatela di destini, un perfetto e mortale ricamo, un racconto in cui Joseph Roth, stremato e lucidissimo – questo libro comparve nel 1939, poco dopo la sua morte –, riconduce delicatamente il romanzo alla favola. Ma, e questo è il prodigio della sua arte, senza sovrapporre alla torbida e quotidiana materia romanzesca nulla, appunto, di favoloso: luoghi, fatti e persone appartengono qui, ancora una volta, e inconfondibilmente, alla sua amata Vienna: eppure un nuovo tono, una diversa, quasi impercettibile scansione sembrano animare la vicenda, fissando ogni particolare in quella peculiare ineluttabilità che solo la favola sa dare. Giunto a una maturità chiaroveggente e disperata, il narratore Roth prende qui un’ulteriore distanza dalla storia che narra.
Invano cercheremmo in queste pagine quei personaggi mediatamente autobiografici che in altri suoi romanzi erano circondati dall’alone della sensibilità di Roth stesso. Ora l’autore torna a essere la pura voce senza nome della favola, con precisione spietata muove i suoi personaggi in una partita a scacchi di cui essi non sono consci e che segnerà, per tutti, la rovina. L’ufficiale Taittinger, futile ed elegante, che ha passato la vita scostando da sé come ‘noioso’ tutto ciò che poteva obbligarlo a pensare; la bella Mizzi Schinagl, che ha avuto la ventura di una notte d’amore con lo Scià e tante altre vicende di cortigiana; un funzionario della polizia; uno squallido giornalista; un’avida ruffiana; comparse di militari, burocrati, fanciulle, e lo Scià e l’Imperatore: tutti questi esseri sono pezzi in un gioco che sembra all’inizio sconnesso e casuale, ma diventa poi sempre più serrato e distruttore – e il movimento del tutto è come quello di un lunghissimo nodo scorsoio che si stringe lentamente, senza arrestarsi mai, per tutta la durata del romanzo: a indicare anche, con abbagliante chiarezza, il nesso indissolubile fra il raccontare e la morte.
Mai come in questa finta commedia che finisce nella totale desolazione i particolari del racconto di Roth incantano e catturano, quasi senza ragione e per se stessi, come bastasse che siano nominati da questo camuffato narratore orientale. Ma, avvicinandosi alla fine, l’insieme si illumina nella sua necessità, in una luce che lascia sgomenti: «tutto ciò che era nascosto sarà rivelato»: se, per una catena di casi, l’avventura segreta dello Scià finirà per diventare un fatto pubblico e sarà addirittura portata sulla scena in un baraccone di luna-park, dopo aver condannato a morte l’ignaro ufficiale Taittinger, che l’aveva messa in moto, è perché ogni minimo fatto della vita, ogni occasionale inciampo contiene una potenzialità infinita di conseguenze. E la favola, sembra dirci Roth, è solo uno squarcio di luce gettato su un minuscolo ritaglio di questa rete che tutti ci avvolge nell’inganno dell’apparenza. Alla fine, rimarrà intatta solo una collana di perle intorno a cui tutta la storia aveva occultamente ruotato.

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