Il sabba intorno a Israele: Fenomenologia di una demonizzazione

Nessuno stato moderno ha subito per cinquant'anni un ininterrotto processo nei suoi confronti come Israele. In seguito alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, e alla clamorosa vittoria israeliana contro gli eserciti guidati da Nasser, Israele ha iniziato a essere presentato all'opinione pubblica mondiale come uno stato canaglia, responsabile di misfatti e abusi ai danni degli arabi palestinesi assurti al ruolo di vittime e di «resistenti». Questa narrativa fondata su menzogne, distorsioni e omissioni è servita a costruire un vero e proprio romanzo criminale in cui è confluito inesorabilmente tutto il materiale nero sugli ebrei formatosi nell'arco di millenni. In tal modo, la micidiale macchina del fango messa in moto alla fine degli anni '60 dagli stati arabi perdenti con la complicità dell'Unione Sovietica ha risarcito i vinti sul campo di battaglia, concedendo loro uno straordinario successo sul piano della propaganda. La marchiatura a fuoco di Israele, la sua demonizzazione attraverso l'uso di parole stigmatizzanti come «colonialista», «razzista», «genocida», «nazista», è oggi diventata una terribile banalità. Quella stessa banalità semantica dileggiante e patibolare che negli anni '30 e poi '40 veniva adoperata in Europa prima che si passasse allo sterminio organizzato. Oggi, l'antisemitismo si ricicla con la maschera presentabile dell'antisionismo, in voga tanto nelle manifestazioni di piazza dove si inneggia alla distruzione di Israele, quanto nei salotti «colti» e in ambito accademico e mediatico. Si tratta di degradare in effigie ciò che non si può distruggere materialmente, vera e propria propedeutica per l'omicidio che si spera di tornare un giorno a commettere mentre il mondo assiste indifferente.

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