Isola del fiume
- Autore
- Antonio Venditti
- Pubblicazione
- 13/10/2017
- Categorie
Sono presenti fenomeni e tematiche angoscianti di attualità: uomini e donne che stanno in solitudine, anziani e malati che vivono per strada, migranti ignorati, carcerati in condizioni degradanti, donne schiavizzate: sono questi gli “esclusi” dalla società.
Nell’evidente simbolismo, l’Isola del fiume è il fulcro dell’utopia degli emarginati che, uniti nella costruzione di un mondo nuovo, ritrovano dignità e serenità.
ISOLA DEL FIUME
di Pier Luigi Starace
L’ultima creazione narrativa di Antonio Venditti , “Isola del fiume”, ha una trama lineare, nel senso proprio dell’aggettivo. La “linea-guida” è il percorso del protagonista, Eusebio, il quale ha smarrito, in seguito ad un trauma intollerabile, la memoria del proprio passato, fino alla cancellazione anche della propria identità anagrafica, verso la riappropriazione del proprio io sepolto, ed insieme verso un felice reinserimento nella società.
Tale percorso avviene rigorosamente al di fuori d’ogni struttura istituzionale di “recupero”, fra gli abitanti di “Isola del fiume” , una periferia incolta lungo una riva fluviale che l’incuria delle autorità ha ridotto ad una specie di discarica di esseri umani che la “società civile” ha espulso dal proprio seno per intolleranza delle loro varie “diversità”. Ma ognuno di loro si è letteralmente costruito un riparo, anche, quasi in tutti i casi, per una compagna, ed addirittura per bimbi abbandonati, ed anche animali (si parla di una “Comunità di cani e Gatti”) ed insieme hanno creato una comunità veramente “civile”.
Entrando in essa attraverso felici contatti con ognuno dei suoi componenti, Eusebio vi penetra sempre più profondamente e sicuramente, recuperando anche la memoria del proprio io. La sedicente “società civile” ufficiale non tollera quella “diversità organizzata”, e cerca, anche servendosi delle istituzioni, di eliminarla. Ma non ci riesce, e gli abitanti di “Isola” rintuzzano, servendosi perfino di animali “militarizzati”, i tentativi penosi di due vigili urbani di penetrare nell’”Isola”.
L’opera mi si è presentata come una “fiaba a puntate”, per l’essenza della sua ispirazione. Tra le sue precursioni storiche vedo lo “Heinrich Von Ofterdingen” di Novalis, “Il piccolo principe “ di St. Exupéry, e, per scendere alla contemporaneità, certe opere di Terry Pratchett. Certe scene surreali rimandano a Fellini, non per nulla uno degli agili capitoletti è titolato “visioni oniriche”, e che il volo oltre la realtà sia una costante è anche certificato dall’altro titolo: ”La donna dei sogni”. Che l’autore stesso sia cosciente di questa impostazione è confermato dal contenuto del capitolo “Giganti a confronto”, nel quale una mitica incarnazione del Bene dialoga con una del Male, secondo il canone tragico “antagonista- deuteragonista” con una potenza argomentativa che, tra tanti, avrebbe potuto trovare apprezzatori in Zarathustra, Agostino di Tagaste, Mani. Ancora, in certe scene la presenza di cani, gatti, uccelli che combattono, oltre a ricordare quanto immaginato dall’Orwell della “Fattoria degli animali”, ci suggerisce la scena da cartone animato, questa tecnica oggi oramai inscindibile dalla creazione fiabesca. Il suggello confermativo del tutto è lo scioglimento felice, che, pur comune alle altre opere narrative dell’autore, in questa è prodotto da una tale sincrasia di tante circostanze favorevoli che appare, nei frangenti attuali, possibile solo nel sogno, nella fiaba.
Con ciò non voglio sottintendere che l’autore navighi dall’inizio alla fine fuori dal tempo e dallo spazio, perché gli accenni alla realtà storica ed alla cronaca ci sono, cito solo la politica coloniale italiana in Libia, l’attuale “lotta alla corruzione”(vista da un angolo visuale inattuale), l’atmosfera emarginatrice di un certo perbenismo farisaico provinciale, in sincrasia negativa con la violenza dispiegata dai recenti razzismo e teppismo verso le povertà autoctone ed importate; lo stesso protagonista, è un caso di “ricerca del tempo perduto” così frequente oggi.
Voglio semplicemente cogliere in una “nostalgia della fiaba” la causa prima, l’atmosfera di fondo, il “leit-motiv” dell’opera. Nostalgia d’un’anima infantile, che solo nella fiaba trova il nutrimento per dispiegarsi. Mai m’era capitato di legger qualcosa di così aderente alla visione dell’artista secondo l’intuizione pascoliana di “fanciullino”. Il fanciullino che trova naturale veder due colombi posarsi sulle spalle di Eusebio ed immaginare che cosa si dicano reciprocamente gli uccelli e l’uomo, il fanciullino che respira l’innocenza luminosa dell’anima di donne che per la “società civile” sono irrimediabilmente “sporche”, o peggio; il fanciullino che s’estasia nel vedere le coreografie d’una festa di bimbi, tanto simile ai “saggi di fine anno scolastico” tanto noti all’autore; il fanciullino per cui la rimessa in funzione d’una vecchia locomotiva su un vecchio binario è un evento indimenticabile; il fanciullino, finalmente, che guarda con occhio puro anche l’atto sessuale, come avviene in due occasioni; il fanciullino assetato di bellezza, verità e la bontà.
“Atmosfera di fondo”, dicevo prima. Ecco, quella che ravviso più vicina, affine, armonizzabile a quella che Eusebio respira nella sua “vita nova” fatta di accoglienze, comprensioni, accettazioni, è l’atmosfera di fondo del “Purgatorio” dantesco. Trovo sia in questi personaggi di Antonio Venditti che in quelli danteschi della seconda cantica quello stato d’animo di grato stupore al Cielo per esser sfuggiti a qualcosa d’atroce, e, conseguentemente, di speranza, d’apertura, di confidenza in chi si trova in una simile condizione. Vedo la stessa nostalgia per “le accoglienze oneste e liete”, la buona educazione, i modi gentili, non come retaggio di frequentazioni cortigianesche, ma come traduzione adeguata d’una sincera bontà di cuore. D’altronde il polo negativo del Dante d’allora, definita con la parola rimante con l’ultima di questo verso “ ahi serva Italia di dolore ostello” è , oggi d’una puntualissima attualità, per tutti quelli che hanno l’amaro onore di saperlo vedere.
La circostanza in cui ho cominciato a scrivere le novelle, a cui sono poi seguite le favole è davvero singolare.
Mi trovavo, d’estate, nella casa di Anzio, e nel bel giardino sovrastante la spiaggia accompagnavo mia moglie che non poteva più scendere a passeggiare lungo la spiaggia come preferiva, a causa delle condizioni di salute che le permettevano soltanto di sostare in una parte ombrosa del giardino.
Io stando su una panchina a “prendere il sole”, per passare il tempo, cominciai a scrivere. Il primo racconto prese spunto da un canto popolare, dal quale trassi una storia commovente.
Le novelle furono una trentina, corrispondenti alla durata della mia vacanza agostana annuale spesso prendevano spunto da fatti reali locali.
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