Si riapre il sipario
- Autore
- Antonio Venditti
- Pubblicazione
- 22/11/2021
In un’intervista mi è stato chiesto: ”Perché il teatro?” Io ho risposto che non ho avuto esitazioni, nel senso che sul palcoscenico le esperienze sono vissute e condivise con coinvolgimento emotivo tale da poter determinare il rinnovamento delle coscienze. E penso, con serenità e modestia, di aver avuto ragione, in considerazione del gradimento, espresso subito in internet con cinque stelle, gratificandomi anche per le forme “nuove” di rappresentazioni all’aperto, dove lo scenario è quello consueto della vita.
Si riapre il sipario: sperimentazione teatrale
di Pier Luigi Starace
Un attore rimasto senza lavoro e senza casa per le restrizioni da covid, viene accolto dal custode d'un teatro in fase di riapertura, perché un impresario intraprendente e di pochi scrupoli si sta dando da fare, fino ad ottenere un finanziamento per “ripartire”. Il custode stenta, in un dialogo con l'attore, a mantenere un segreto esistenziale, la sua passata convivenza con una bella ragazza non consenziente. Mentre i tre uomini cercano d'impostare un progetto di spettacoli, ricompare la ragazza, insieme ad un giovane innamorato, anche lui attore, che entra subito in urto col custode.
Poi lo scontro si sposta tra l'impresario e l'attore, sul “che fare”, perché il primo, oltre a cercar di trattenersi in tasca più soldi possibile, ha una concezione dell'arte incompatibile con quella del secondo, sinceramente idealista.
È lui a convincere gli attori ad una commemorazione “di strada” del 7° centenario Dantesco con una recitazione a 4 voci del canto di Paolo e Francesca, e poi del 160° dell'unità d'Italia, che hanno molto successo di pubblico.
Quindi riprende lo scontro tra l'innamorato ed il custode, con l'intermezzo d'un lungo soliloquio della ragazza sulla sua “detenzione” ed un lungo dialogo tra i due giovani. L'impresario licenzia il custode.
Nell'ultima scena il custode, mascheratosi da “angelo giustiziere”, spara ai due, uccidendoli, e si suicida.
Non sono mai stato contaminato dalla durezza sprezzante dei cultori della distinzione e rigida definizione normata dei generi letterari. Ma, forse per la mia formazione classicistica, sono rimasto un po' disorientato dalla libertà che Antonio Venditti dispiega in quest'ultima sua creazione, soprattutto all'interno dei “generi” teatrali codificati.
Infatti, al “prologo” , che mi sembra corrispondere alla motivazione manzoniana del “coro”, cioè il ritagliarsi un cantuccio dal quale l'autore possa esprimersi sulla scena evocata, segue un lungo soliloquio del protagonista della parte principale, descrittivo del contagio covid.
A questo punto si “entra in teatro” . Il “genere” in cui l'autore ci porta è una specie di commedia dell'arte, con vivaci scambi di battute prima di dialogo, poi,
dopo l'ingresso dell' “amoroso” e della sua partner, una specie di concertato tra quattro personaggi.
La recitazione del canto dantesco si colloca ancora nel genere “commedia”, ma “divina”! Il suo accompagnamento musicale potrebbe essere quello d'un classico della musica.
Lo spettacolo patriottico “di strada”, introdotto ed accompagnato da tre “voci” esprimenti ognuna una posizione politica diversa, richiama il teatro di Dario Fo. Qui Venditti ci offre il meglio del suo sottile umorismo nel far balenare i “contrastanti cialtronismi” dei tre posizionamenti politici oggi presenti.
L'autore stesso ci dà uno spunto per l'accompagnamento: la canzone “L'Italiano” di Totò Cotugno.
Tutto quanto riguarda il rapporto tra i due innamorati e tra loro ed il loro assassino richiama i drammi a forti tinte, con contrapposizioni estreme tra “anime belle” , spinte quasi alla santità, e “mostri” , spinti fino al diabolico.
A questo punto, sulla scia di quasi tutte le opere di Venditti, mi sarei aspettato un felice scioglimento, con le nozze dei due innamorati , ed l'attore idealista, praticamente il protagonista del “tutto” , come testimone di nozze.
Invece l'atroce conclusione.
Troppo facile e scontato cercare un riferimento nel finale di “Pagliacci” di Leoncavallo. Lo sconvolgimento che ho provato - così profondo da costringermi a prender coscienza che si si trattava di “fiction” e non di realtà - mi ha fatto schizzare molto più indietro, sì, fino alla nascita della tragedia.
Ed a pormi domande: che cosa motiva la riuscita “punizione” dei due giovani?
Forse quella “invidia degli dei” elemento formidabile della concezione tragica ellenica, e che Dante aveva sintetizzata nel suo “amor che a nullo amato amar perdona”? Qual è l'essenza profonda del “mostro giustiziere”? Quale altra morale si può estrarre da questa scena, il cui sottofondo musicale potrebbe esser quello assordante del finale di “Rigoletto”, diversa da quella d'una Necessità
cieca che colpisce insieme i buoni ed i malvagi?
L'autore ha parlato.
Sta a noi rispondere.
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